Abdessalam Yassine [Islam e modernità pp. 95-97]

Per secoli, gli ebrei convissero con i musulmani sotto l’ala protettiva del califfato di Spagna. Sono gli stessi storici ebrei che riconoscono e affermano che l’età d’oro del loro popolo si situa geograficamente e storicamente nella Spagna musulmana. Nel momento in cui il popolo che, secondo la fede cristiana, ha tradito e crocefisso Cristo, era odiato e perseguitato come nemico deicida in Europa, nella Spagna musulmana gli ebrei godevano dello status che l’islam garantisce alle minoranze, alla gente della Scrittura in particolar modo, gli ebrei e i cristiani.

Fratelli nel benessere di una civiltà prospera e tollerante per lungo tempo, i musulmani e gli ebrei di Spagna caddero entrambi sotto il giogo repressivo della Reconquista e della spietata Inquisizione che li ha bruciati vivi e li ha torturati senza distinzione di confessione. Dispersi dopo la riconquista spagnola, gli ebrei trovarono rifugio ancora una volta in Nord Africa e nel Mashreq (Oriente) musulmano.

Paragonata alla vita, o piuttosto alla sopravvivenza, che gli ebrei avevano in Europa, regolarmente maltrattati e massacrati durante i periodici pogrom, quella degli ebrei in Nord Africa e in Oriente sembrava la bella vita, dove almeno hanno goduto della sicurezza assoluta.

La “questione storica” ebraica si risvegliò in Europa nel corso del diciannovesimo secolo, rappresentata dal movimento sionista motivato da un’ideologia laica che gira le spalle alla ​​tradizione talmudica e divorzia con l’immagine dell’ebreo errante dai lunghi riccioli, per presentarsi sotto i tratti moderni del ricco banchiere tedesco o del gentiluomo educato a Oxford.

I Rothschild e gli Hertzl erano dei laici moderni in redingote e cravatta a papillon; ebrei nell’anima, tuttavia, coscienti della sorte abominevole dei loro fratelli che conducevano una vita miserabile nei ghetti di Varsavia e della Russia. L’ungherese Herzl fondò il movimento sionista, volto ebraico della modernità laica, e concepì il progetto ambizioso di uno Stato ebraico da costruire in qualche parte nel mondo.

L’Europa aveva bisogno di un bacino dove scaricare il suo eccesso di ebrei: l’ebreo è troppo furbo, troppo attivo, troppo abile negli affari, e quindi troppo fastidioso. Le sue rivendicazioni, ora organizzate, chiedevano agli Stati-nazione europei, sulla strada della democrazia e dei diritti, un posto al sole.

L’affaire Dreyfus in Francia, illustra bene l’emergere dell’ebreo e le possibilità che gli offriva l’epoca di difendersi contro l’ingiustizia, e di parlare a un segmento di opinione pubblica con l’aiuto di una stampa libera già penetrata dalla finanza pro-ebraica e da un’intellighenzia semita.

Questo sentimento razzista di “trabocco” ha trovato l’occasione di sfogarsi e di esteriorizzarsi; l’opportunismo storico proprio del pragmatismo della politica britannica imperialista, concesse all’ambizione sionista un “focolare” in Palestina.

Dopo la prima guerra mondiale, l’immigrazione ebraica in Palestina si accelerò, incoraggiata, se non apertamente spinta dalla promessa del governo inglese, l’esodo massiccio degli ebrei, soprattutto dell’Est Europa, non tardò a creare nei territori sotto mandato britannico uno Stato nello Stato. L’attivismo ideologico e motivazionale dell’Alleanza Israelita cosmopolita fu rapidamente soppiantato dall’attivismo politico-terrorista della seconda generazione sionista.

Durante la seconda guerra mondiale gli ebrei sopravvissuti al massacro si rifugiarono in Palestina. Il mito dell’Esodo, perpetuato da un film technicolor, presenta al mondo l’immagine pietosa del sopravvissuto ebreo, vittima dell’ingiustizia disumana di cui è responsabile l’Europa nazificata o complice del nazismo.

La coscienza lacerata e appesantita dal rimorso di un’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale rappresentava una manna per il movimento sionista. La vena è ancora sfruttata d’altronde. I leader sionisti, di cui la corrispondenza con l’amministrazione hitleriana è accertata, cambiarono atteggiamento e se la presero con i vincitori, accusandoli di complicità tacita o attiva nel massacro degli ebrei e li colpevolizzarono. 

La presa in ostaggio di una coscienza tormentata è stata condotta con maestria. Per l’Europa concedere uno Stato ebraico in Palestina risolveva due problemi: sbarazzarsi della turbolenza ebraica, e il pagamento di un debito d’onore.

Gli Stati Uniti avevano invece tre ragioni, diverse da quelle dell’Europa e più importanti, per sostenere lo Stato sionista sin dalla sua nascita e per tutto il tempo successivo:

La prima, di ordine confessionale, è che l’avvento del Regno di Sion è un dogma comune a entrambi, ebrei e protestanti, grandi lettori della Bibbia ebraica.

La seconda è che i paesi arabi ospitano i principali giacimenti di petrolio al mondo, i quali hanno bisogno di un custode fidato per sorvegliare da vicino il tesoro, il tempo che si prepari una “tempesta del deserto”.

La ragione economica e quella dogmatica sono concretizzate e confortate da una terza ragione, politica questa collegata direttamente agli eventi: l’esistenza di una lobby ebraica a Washington, sostenuta e finanziata da sei milioni di ebrei americani, ricchi, molto potenti, attivi e influenti.

L’aiuto europeo e americano che lo Stato ebraico riceve è vario, senza contare i contributi di una diaspora ricca e ardentemente sollecitata; il patto americano-israeliano di mutua difesa, insieme al risarcimento europeo, si traducono in una pipeline ininterrotto di assistenza militare, finanziaria, tecnologica, diplomatica e quant’altro possa servire.

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